Scommessa decisiva del domani.
Come riscoprire la funzione, il senso ed il valore della politica in un progetto condiviso
di Giuseppe Cordoni
“Insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Non si tratta di distruggere e di creare nuove città ipoteticamente più ecologiche, dove non sempre risulta desiderabile vivere. Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale.”
Papa Francesco, Enciclica “Laudato sii”, c. IV, II, 143.
Mi sono spesso chiesto di quale sentimento estetico debba nutrirsi la sensibilità del politico. Se oltre ad una retta ed efficace gestione d’un potere democraticamente conferitogli, oltre ad una onestà oggi così vigorosamente invocata e smentita, non debba egli possedere, come qualità assolutamente irrinunciabile, anche uno spiccato senso della Bellezza: ovvero poter disporre d’un suo personale talento nel saper cogliere ed esaltare tutte quelle energie creative che gli individui e il territorio da lui amministrati hanno espresso in passato e sono in grado di accrescere nel presente.
Dico Bellezza nella sua accezione più vasta di collante armonico quale essa è sempre stata. Quale che siano la natura e il risultato della sua genesi, purché nei suoi effetti essa sia capace di modificare, armonizzandolo, il volto del mondo in cui viviamo, la percezione della realtà che ci circonda, la qualità delle relazioni fra gli uomini, la coscienza d’un comune destino condiviso. Quale che siano le facoltà inventive necessarie al suo sviluppo, essa sempre stabilisce e determina la giusta metrica collettiva delle cose, imprimendovi un ordine pacifico ed equilibrato, tale da stimolare un felice senso d’appartenenza ad una stessa cittadinanza, il risultato d’una comunione persino inconsapevole talvolta, come l’aria che si respira, ma non per questo non altrettanto vitale.
Adesso che più si pretende dalla politica di rendersi garante d’una più elevata qualità della vita collettiva, (proprio nel momento in cui essa appare più minacciata e compromessa) come poter pensare di riuscirvi, senza che la politica si renda interprete d’una dimensione estetica prioritaria nel concepire a ogni suo progetto futuro? Se poi tale progetto vuol essere applicato alla gestione pubblica dell’intero territorio versiliese, tale prospettiva diventa determinante.
Al pari della storia d’ogni individuo, anche quella dei territori (luoghi, paesi e paesaggi nel loro spessore naturale e antropologico) va compresa a partire dalla precipua vocazione dei luoghi. Da venti secoli, la storia della Versilia si è sviluppata sempre assecondando una sua armonica unicità creativa. Anzi, dinnanzi allo scempio ambientale che ha subito in questi ultimi decenni, verrebbe da dire che essa o produce Bellezza o irrimediabilmente si degrada.
Sono queste le prime riflessioni che mi vengono in mente di fronte a questo prezioso vademecum operativo: Città Versilia, con cui Ettore Neri, organicamente, ci prospetta un accurato ripensamento del futuro politico e amministrativo di tutto il comprensorio versiliese. In un tempo di così greve miseria ideativa della politica come quello che stiamo attraversando, sorprende davvero la tensione ideale con cui egli qui ne riscopre e rilancia quella visione unitaria con cui, già in passato, più volte, (anche se senza successo!) certi spiriti illuminati s’erano sforzati di prefigurarla.
Sì, una Versilia intera e indivisibile! Concepita, vissuta, amata e amministrata come unasola Città bella: una città-paesaggio che inglobi, così come Neri sostiene, quell’immenso “Patrimonio territoriale” connesso con la tutela, la valorizzazione e lo sviluppo di quei tesori di umana operosità (di genesi della Bellezza) che ne arricchiscono in modo straordinario la struttura. Una Città bella, tale da offrire a tutti coloro che accoglie l’orgoglio di un’irripetibile appartenenza. Un diritto di cittadinanza da spendere, in chi lo possiede, come il privilegio d’una coscienza libera di decidere con tutti.
Una Città bella, che in forza d’una secolare, stratificata identità sappia includere ogni “diverso” costretto ad approdarvi da un mondo che lo rifiuta. UnaCittà bella, che proprio in virtù della varietà della sua conformazione territoriale, consenta di eliminare ed escludere l’inevitabile, tragico disastro urbanistico oggi connesso con ogni forma di periferia. Parafrasando Pascal, si potrebbe dire: che ovunque abiti, ogni suo futuro Cittadino responsabile diventa un suo centro, mentre la circonferenza è in ciò che ne abbraccia una coscienza condivisa del suo valore.
Lasciata così com’è: in questa sua frammentata e discorde condizione attuale, priva d’una visione di città integrata, la Versilia non rischia forse ormai un declino inesorabile? Come non rendercene conto? Come non percepire questo suo stato di realtà malata? Come negarne l’assoluta evidenza? Un territorio violentato e saccheggiato dagli uomini e sempre più spesso devastato dalla furia d’imprevedibili calamità naturali. (Altro che luogo edenico cantato dai poeti!). Lasciata così com’è, abbandonata a se stessa, o ad insanabili, politici contrasti di bottega, peggio se scatenati da interessi di pochi, senza un disegno strutturale d’insieme che la governi, finiremo per smarrire persino il magnifico ricordo di ciò che è stata. E una politica che qui navighi a vista nell’ignoranza della sua preziosa realtà storica e della sua vitalità culturale, neppure saprà intravederne quelle immense opportunità di sviluppo che di fatto contiene. Anzi, solo appiattita sul presente – come già di fatto accade da parecchio tempo -, ed in mancanza d’un nuovo assetto strutturale che la riqualifichi come entità urbanistica unitaria, scivolerebbe da uno stato d’emergenza all’altro, sempre più ingovernabili. S’innesterebbe un processo disgregativo, in buona parte già in atto, ove all’entusiasmo partecipe e solidale s’opporrebbe senz’altro la rabbia, l’insofferenza, e la rassegnazione. Giova qui por bene in risalto l’elenco, seppur sommario, di queste emergenze che tutti i versiliesi parimenti coinvolgono, e dei quali condizionano volenti o nolenti la qualità della loro esistenza quotidiana:
il diffuso dissesto ambientale,
l’infertile abbandono dei campi e la loro conseguente desertificazione,
la “tossicità” delle rimaste attività agricole industrializzate,
l’insalubrità conseguente dell’acqua e dell’aria,
la voracità della metastasi cementizia che ha sconvolto o cancellato ogni differenza fra centro abitato e campagna,
l’inadeguatezza della rete stradale rispetto alle reali esigenze del traffico e la mancanza d’una sua pianificazione unitaria,
il degrado dei parchi naturali e delle selve montane,
l’invivibile bruttezza delle nuove aree industriali, spesso rimaste incompiute e addirittura a ridosso di centri urbani d’altissimo pregio architettonico,
lo scempio d’alberi ovunque o la loro trascuratezza,
la decadenza degli spopolati borghi montani,
la mutazione dei centri storici svuotati del loro tradizionale tessuto umano e non di rado ridotti a provvisori crocevia-cenatown per un turismo mordi e fuggi,
il declino d’immagine e decoro di “lungomare” illustri,
l’incuria o la non valorizzazione in cui versa un rinomato quanto trascurato patrimonio artistico,
la scomparsa nella memoria collettiva dell’esistenza d’un così ricco patrimonio culturale,
la perdita della coscienza d’appartenere a un luogo impareggiabile,
l’incapacità di saperne trasmettere il valore alle nuove generazioni,
la precarietà dei posti di lavoro giovanile e la conseguente dissipazione di risorse umane,
lo smarrimento di secolari saperi artigianali illustri (nella scultura del marmo, nella lavorazione del legno e del ferro) o di competenze manifatturiere rapidamente venute meno,
il senso d’insicurezza del vivere quotidiano specialmente in chi abita più isolato,
il sentimento di paura rispetto a rapide e imprevedibili mutazioni sociali,
lo spirito di diffidenza rispetto alle differenze etniche e culturali,
il timore d’essere abbandonati a se stessi rispetto ai servizi assistenziali essenziali,
l’estrema sperequazione abitativa che vede la rendita immobiliare espropriare ciò che resta del territorio con nuove costruzioni che restano spesso invendute, e ciò nel degrado dello storico patrimonio urbano non recuperato,
il paradosso d’un numero enorme d’alloggi vuoti con la penuria di case per i meno abbienti,
lo sradicamento (soprattutto delle nuove generazioni) dalla cultura proprie origini,
la cecità sempre più estesa rispetto ad una Bellezza che resta impercepita e si degrada.
Emergenze tutte queste che non è un ossimoro definire come endemiche e che, senz’altro, non investono soltanto questo nostro territorio. Anche se non consola il livello di degrado a cui sono scivolate bellissime città italiane; per non parlare della stessa capitale romana (civitas per antonomasia) ed ora invece impensabile emblema d’uno stato di disperante disgregazione. Disgregazione, ahimè, spesso ancor più aggravata da una dilagante, anch’essa endemica, corruzione della politica amministrativa. Cosicché, dinnanzi ad una crisi così profonda dei nostri modelli metropolitani, v’è da chiedersi se se non sia l’impianto stesso dell’attuale assetto urbano tutto da ripensare. Se al “brutto” che si è generato dietro ogni rapida e disordinata esplosione-espansione della “città diffusa” (con la conseguenza d’un inevitabile degenerarsi al suo interno delle umane relazioni), la politica non si trovi dinnanzi alla radicale necessità d’invertire le proprie scelte.
L’ambizione del presente progetto d’Ettore Neri sulla futura Città Versilia sta tutta nell’ipotesi d’un simile mutamento di prospettiva. Riscoprendo una sana utopia della realtà, esso rivendica alla politica l’intelligenza di riuscire a conoscerla e a governarla, questa realtà da cui ciecamente e dolosamente s’è distratta e allontanata. Una politica che non rinuncia alla passione civile, alla scommessa e alla “presunzione (rischiosa, ma virtuosa) di saper indicare mete, strategie e obiettivi che vanno ben al di là d’immediati interessi contingenti”.
Il primo di questi coraggiosi obiettivi consiste proprio nel voler smentire quella scontata percezione che ormai qui abbiamo di “città diffusa”. Una agglomerato sempre più esteso di costruzioni (residenziali o produttive) né ordinato, né pianificato, ove insicuri abitiamo e ove convulsamente s’accentrano la nostre sconnesse attività economiche e le nostre inadeguate soluzioni amministrative. Un disgregato espandersi suburbano, senza identità ed anima e perciò senza futuro. Un territorio che sempre più va smarrendo ogni propria precipua vocazione; e che, per essere salvato, aspetta dunque d’essere “rifondato”, secondo un disegno che sia capace di bonificare ognuna delle suddette emergenze.
Quale altra voce più congrua di questa: “bonificare”, se si guarda a con quale sforzo immane, nel corso di oltre venti secoli, la Versilia era riuscita a darsi questa sua struttura ed immagine di Bellezza! E come, in forse meno di cinquant’anni, ne sia stata compromessa l’armonia quasi in modo irreversibile! Di fronte ad un tesoro in così poco tempo dilapidato, e per giunta in una fase storica di più elevata e diffusa ricchezza materiale, viene da chiedersi se la prima “bonifica” da cui ripartire non sia quella delle coscienze. Se la prima cosa da ripensare non sia proprio il legame responsabile che corre fra “ cittadino” e territorio. Come non accorgersi che una delle prime cause di disgregazione sociale e ambientale sta proprio nel fallimento dei modelli urbanistici attuali?
Oggi più che mai, lo spettro di un’endogena barbarie aleggia su ogni invivibile agglomerato periferico non più ammesso ad ogni responsabile scelta comune. In ogni città mancata rien se tient. In ogni città mancata, è la moltitudine degli esclusi – dei “cittadini mancati” – a soffrire e a pagare il prezzo d’inaudite differenze. Disparità culturale, povertà, emarginazione, solitudine. Intollerabili iniquità che trasformano i ghetti urbani in incubatrici di violenza e ribellione, e adesso persino in perniciose derive di matrice terroristica. Quanto più frammentato nel suo governo, anche il territorio versiliese non potrà infine sottrarsi al rischio di ridursi da squilibrata”città diffusa”, quale è già adesso, in ormai “diffusa periferia” disgregata.
Al contrario, questa nuova Città Versilia, qui ipotizzata, individua ed attinge nella coesione fra le parti un primario valore fondativo. Non è un caso che le due voci a cui ci si ispira, “civitas” e “civilitas” traggano da uno stesso etimo tutta la loro forza originaria. Andando verso una sempre più esasperata globalizzazione che paradossalmente ci disgrega piuttosto che cementarci, è indispensabile che fra la più immediata e concreta percezione di “città” e la più immateriale e spirituale cognizione di “civiltà” si riscopra un collante indissolubile. Un preciso disegno culturale e politico che sia in grado di prefigurarne lo sviluppo, proprio nei termini di un’umanità e di un’affabilità che individuano in un “fare” secondo Bellezza il tratto più saliente di tutta la propria storia. Se è legittimo e non esagerato prendere atto d’una sorta di vera e propria “civilisation” del lavoro e della creatività versiliese, proprio da essa si deve ripartire per rifondarla come un’impen-sata quanto inedita e originale struttura urbana.
Già in passato la Versilia ha conosciuto sperimentato la tensione utopica d’ipotizzare forme di Città bella. Si veda Pietrasanta, la cui aurea misura architettonica anticipava di più d’un secolo la riflessione sulla città ideale del Rinascimento. Si veda Viareggio, la cui solare determinazione di perla coltivata in un padule, la imponeva come nuovo modello d’abitare nella luce agli albori del Novecento. Ripensarla oggi la Città bella, non comporta più soltanto l’ideazione d’una struttura urbanistico – architettonica omogenea nel suo tessuto abitativo e circoscritta nella sua estensione. Più non significa (almeno per la Versilia) l’individuazione di quelle modalità costruttive con cui di volta in volta si è cercato di realizzare un modello urbano che sia in grado di dare risposte concrete al desiderio di convivenza civile pacifica e operosa degli uomini.
Ora, più che d’un preminente espandersi senza soluzione di continuità di costruzioni e agglomerati urbani (qualunque ne sia la natura: residenziale, commerciale, amministrativa, industriale o destinata ai servizi), anche in prospettiva di un’auspicata e ripresa economica, l’odierna nostra utopica città senza mura da rifondare non potrà identificarsi che in un’armonica orchestrazione dell’esistente. Imprimere ad un territorio così composito e variegato come il nostro l’impronta unificante d’una città necessita d’immense energie creative, politiche ed etiche. Ma ad uno stesso tempo le scatena. La prima di queste energie può scaturire proprio dall’esigenza di tornare a bonificare ciò è stato compromesso o devastato per dolo e vantaggio di pochi o per colpevole incuria di tutti. Lo sollecitano i nuclei urbani da ridefinire, i centri storici da salvare, le campagne da ripristinare, i borghi da ripopolare, le spiagge da consolidare, le acque da risanare, i parchi da custodire, gli oliveti e le selve da rilanciare, le cave da rispettare; ed infine, non ultime, le coscienze da coltivare, le volontà da far convergere, le relazioni da ingentilire.
Ciò non appaia come una scommessa fra ingenua o temeraria. È vero, enormi sono le difficoltà che una simile impresa comporta. Ma tale è la posta in gioco, che vale veramente la pena d’azzardarla. E ci occorre, innanzi tutto, una visione d’insieme che ce ne prefiguri tutte le straordinarie possibilità d’armonia. Quale altra parte d’Europa si presterebbe ad una sperimentazione urbanistica altrettanto originale? Non ci si ancora resi conto dell’assoluta rarità che riveste quello che non di rado è stato percepito come un territorio-paesaggio privo d’un suo assetto preciso. Mentre è già la sua prima configurazione naturale a conformarlo nella splendida unicità d’un immenso, femminile corpo disteso. Anche allo stato attuale, da sud a nord, basta un semplice vista aerea ad abbracciarne l’intera estensione.
Dal Parco di Migliarino-San Rossore alla vetta del Monte Altissimo, quale ordinata modulazione di così variegati scenari vi s’incastonano! Fra l’orlo del mare e la fuga azzurra delle vette apuane, eccole dispiegarsi, le membra di questo corpo predisposto dalla pazienza della Natura e quasi interamente riplasmato (reso un tempo civile e cittadino!) dalle mani dell’uomo. Dal grembo d’acqua del Lago musicato da Puccini, al capo austero nel marmo scolpito da Michelangelo, non v’è lembo di pineta, campagna, centro urbano, collina, cresta o parete di montagna da cui l’invenzione, la perizia e la tenacia (e in altre epoche, la misura) di un Lavoro concepito come Arte non abbiamo saputo cavarne pane e poesia.
E proprio in ciò consiste l’elemento costituivo dell’anima versiliese, dove mani febbrili e appassionate hanno, attraverso i secoli, celebrato queste nozze fra Natura e Cultura. Anche se chissà per quanto ancora, nelle vene del nostro immaginario collettivo pulsa e circola un sangue che si nutre d’una storia irripetibile. La sua essenza “civile” era e rimane di natura mitopoietica. Siamo stati l’espressione d’un fare nobile che non è destinato soltanto – come altrimenti oggi accade quasi ovunque – ad un saccheggio irreversibile delle risorse naturali, alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, all’oscena tracotanza d’una ricchezza cieca su una moltitudine di disperati. Perché ben altra dev’essere la coscienza politica di chi, per scelta e destino, è chiamato a generare il Bello indispensabile, diventa un moltiplicatore inesauribile di storie e d’emozioni condivise. E inestimabile diverrebbe la portata innovativa (rivoluzionaria!) d’una città-territorio che davvero rivolta davvero a produrre il Bello nel Bello, s’imponesse come possibile modello universale.
In verità, come non accorgersi che la Versilia, forse a sua stessa insaputa, in gran parte ciò lo è già stata? Come non preoccuparsi che non possa tornare ad esserlo, essendo questa la sua basilare ricchezza? Sì, da nord a sud, in un raggio che neppure supera i venti chilometri, qui l’oro delle mani ha conosciuto il suo massimo fulgore. Ce lo ripetono la metamorfosi del paesaggio e, in epoche così lontane e diverse fra loro, la metrica d’ideali città “pensate”. L’ordine un tempo così sapiente delle campagne, adesso abbandonate; l’avventura ciclopica del marmo e i fasti della scultura; le fonderie del bronzo e il loro fascino di bottega rinascimentale; le invenzioni della nautica e, nel turismo, l’arte d’ospitare; la tradizione dell’opera lirica e i trascorsi del teatro; le ricerche del cinema e i linguaggi della canzone, la coscienza dello sguardo e i prodigi della pittura, la beltà del paesaggio e la luce della poesia; la festa del Carnevale e l’anarchia liberatrice della satira, l’apertura all’integrazione e lo spirito d’accoglienza.
La coscienza di questo progredire o venir meno d’una siffatta vocazione al Bello rende così esaltante questa nostra scommessa. Del resto, fin nelle pieghe del proprio nome, questa terra sembra recare lo stigma di un’unificante évolution creatrice. “Vesidia terra intra duos lacus appellatur, quam flumen eiusdem nominis transeat”. Quando, fra i due laghi di Porta e Massaciuccoli, in sé accogliendo tutte le piogge scendevano dalle Apuane, a fatica scavandosi una traccia in una piana ancora paludosa, finiva per sfociare alla bocca di Motrone. Così compare in una citazione antica, variamente riportata, forse a commento della stessa Tabula Peuntigeriana e qui riproposto per la sua così forte connotazione simbolica.
Oggi, nel bene e nel male, la grande mole del nuovo Ospedale Versilia pare quella di un grande bastimento insabbiatosi fra i pini che quasi nascondono il mare. Proprio a due passi da quello che fu Motrone. Il medioevale porto sepolto: ancor prima nella memoria che sotto la sabbia. Ove un tempo confluivano tutte le acque d’una terra, ora convergono tutte lacrime. Lacrime trasversali di gioia o lutto: nuovo porto del nascere o del morire. Nel nostro immaginario collettivo non potrà esservi collante ideale di maggior effetto per porre le fondamenta di quella città Versilia che proprio in questo sito ha trovato – pur con tutte le contraddizioni a cui siamo soggetti in questo tempo, – le sue prime concrete ed emblematiche premesse.
Quale altro valore elementare può infatti esservi di così aggregante fra gli individui? In un medesimo luogo condividere e sim-patire ogni nostra esperienza decisiva. Quella che più ci rende simili, fragili e soli: come il venire alla luce, l’attraversare la sofferenza della malattia, il prepararci all’ultimo distacco. Solo che qui, nel nome di Versilia, tale condivisione non può che coniugarsi all’insegna della Bellezza. Perché è l’essenza stessa della sua storia ad essersene stata alimentata. Perché qui – per una singolarissima sorte – è stata la poesia (cioè un fare secondo Bellezza) a rendere “trasparente” il senso dell’umana condizione.