(Articolo pubblicato su economiacircolare.com)
Intervista di Emanuele Profumi ad Alfonso M. Iacono
Col filosofo italiano parliamo di economia, transizione ecologica, disuguaglianze, politica: “La questione ecologica è importantissima, ma non va disgiunta dal problema sociale”
Già ordinario di storia della filosofia all’Università di Pisa, Alfonso Maurizio Iacono è uno dei più autorevoli pensatori italiani dell’epistemologia della complessità (ha, per esempio, fondato il laboratorio filosofico sulla complessità Ichnos). In questa “intervista costruttiva” ci accompagna nel nostro ragionamento pubblico su crescita, ambiente ed economia, mettendo a fuoco nodi problematici e prospettive di trasformazione.
Se guardiamo all’economia dominante, sembra che si possa affermare che lo sviluppo economico portato dalla globalizzazione neoliberista, almeno dal 2001 in modo chiaro, si è orientato verso una scelta “militarista” di sviluppo del mercato globale delle armi, di un’economia del “warfare”, piuttosto che sulla riconversione ecologica, ovvero in base al fatto di ripensare l’intera economia a partire dai problemi, dalle questioni e dalle necessità che le urgenze della crisi ecologica sin dagli anni ‘70 del secolo scorso hanno posto drammaticamente all’ordine del giorno a livello globale e locale. Condivide questa lettura? Cosa ne pensa?
Intanto esiste un problema relativo al neoliberismo. Fermo restando che la questione del neoliberismo è precipitata dagli anni 2000, per come la vedo io il processo è iniziato grosso modo negli anni ‘80, quando si è cominciato a smantellare tutta una serie di conquiste ottenute negli anni ‘70. In sostanza, molto dipende dai punti di riferimento: se devo avere come punto di riferimento lo Stato, come uno dei modelli, quello che vedo è un processo che sta portando alla frantumazione dello Stato sociale a favore dell’ideologia dello Stato minimo. Ideologia che ha trovato favorevoli sia movimenti di destra sia movimenti di sinistra. Per ragioni che si possono anche comprendere: lo Stato minimo va bene nella misura in cui si oppone allo Stato oppressivo e repressivo. Ma in realtà i due tipi di Stato (neoliberista e repressivo) convivono. Secondo me, lo Stato minimo non c’è mai stato. Nonostante si sia detto il contrario, in tutta la storia del capitalismo, compreso il neoliberismo, e forse persino di più, gli Stati hanno sempre avuto un ruolo fondamentale. E adesso, ahi noi, lo vediamo, con quello che sta succedendo. Prendiamo, per esempio, Obama: cos’ha fatto per uscire dalla crisi? Ha fatto intervenire lo Stato in modo massiccio. Non a caso. Comunque sia, dietro il neoliberismo vi è una visione del mondo che nega l’idea stessa di visione del mondo, ma proprio per questo è una visione del mondo che, con l’aria di sostenere il pluralismo, pretende di essere unica e assoluta. Si tratta della ideologia della fine delle ideologie o della fine della storia, oggi sbugiardata tragicamente purtroppo da quello che sta accadendo. Oggi Fukuyama (teorico della “fine della storia”, ndr) ammette che ha sbagliato. Ma il problema non è lui, bensì chi va dietro a queste semplificazioni ideologiche incredibili…anzi, purtroppo credibili (fingunt simul creduntque: immaginano e nello stesso tempo ci credono, scrivevano Francesco Bacone e Giambattista Vico, parafrasando Tacito), che ci hanno portato davanti al fatto che l’ideologia individualista, con il primato dell’estetica sull’etica (ma non voglio demonizzare l’estetica, intendiamoci, non sono affatto un simpatizzante del Savonarola…), questo passaggio di tipo autoreferenziale e individualista ha operato lo smantellamento dello Stato sociale. Qual è il punto importante? Non penso che lo Stato sociale sia l’utopia realizzata, anzi, per certi aspetti ritengo che sia qualcosa di minimo, ma è quella dimensione minima che permette di allentare la divaricazione delle diseguaglianze. Mentre dietro il neoliberismo, l’individualismo e l’immagine di una libertà che non ha limite rispetto all’altro, emerge una forma di arroganza che prende la forma di quanto emerso in questi anni: l’imprenditore di sé stesso, la bellezza del cosiddetto “lavoro flessibile”, ossia del lavoro precario e il grande imbroglio ideologico e culturale che l’ha sostenuto, tutte queste cose hanno fatto arretrare lo Stato sociale, come abbiamo visto con la pandemia. Lo Stato sociale non c’è più, la sanità è stata smantellata, tutto viene privatizzato.
Esiste poi un secondo aspetto che in genere non viene evidenziato, e che è tipico del sistema capitalista: a parte i milioni di morti, con la pandemia non è che ci siamo impoveriti tutti, ma, come avviene sempre nel sistema concorrenziale capitalistico, c’è chi si è arricchito. Perfino Biden aveva provato a proporre di sospendere i brevetti, ma nessuno ha ascoltato il capo della più grande potenza mondiale. La situazione ha portato ad aumentare i profitti di alcune aziende potentissime. E con la guerra peggio ancora. Perché, a proposito di ecologia, a questo punto aumenterà non solo l’uso delle armi ma la spesa per gli armamenti, il che sposterà il finanziamento della ricerca, che si getterà sulla produzione di armamenti e di nuove tecnologie offensive e difensive, e così via.
In questo quadro la prospettiva ecologica è fondamentale, non solo per le ragioni largamente risapute (anche se spesso si presentano con molta ipocrisia quando constatiamo che oggi non c’è pubblicità che non si voglia “ecologica”, nel teatro che vuole che tutto oggi è “sostenibile” ed “ecologico”) ma perché, forse per la prima volta nella storia, il capitalismo che storicamente è sempre riuscito a rivoluzionare sé stesso, in quanto profondamente plastico, anche grazie a delle rivoluzioni tecnologiche, data la situazione di disastro ecologico in cui ci troviamo, forse per la prima volta rischia di non fare in tempo a modificarsi e a riadattarsi. Davanti alla attuale condizione di disastro ambientale planetario, il tentativo di riconversione potrebbe questa volta arrivare troppo tardi. La situazione è infatti quella che è: i G20 e il G8 ci prendono in giro. Inoltre, con la guerra la crisi si accentuerà. Ci ritroveremo inevitabilmente in una situazione di “antropocene patologica”. Per questo la questione ecologica è importantissima, ma non va disgiunta dal problema sociale.
Quindi la pandemia e la guerra ci permettono di vedere quali sono i pilastri dell’attuale sistema economico, giusto?
Sicuramente sì. Guerra e pandemia sono la verità vera di cosa è il capitalismo. Questo è drammatico ma anche paradossale. Infatti il capitalismo riesce a reggersi non con lo Stato sociale, ma con uno Stato repressivo forte (e, a parte la Russia, mi viene soprattutto in mente la Cina), oppure con una forma di democrazia che è un mezzo in grado di assicurare, nell’epoca dei mass media, attraverso modi elettivi basati su scarsa partecipazione, apatia politica e ignoranza pubblica, la circolazione delle élites. È una “democrazia senza democrazia”. È una “democrazia referendaria” dove “finalmente” sono stati aboliti i partiti, e la politica o è un intralcio o una forma di corruzione, che dovrebbe diventare marginale rispetto alla “bontà” degli imprenditori o degli antagonismi sociali. Tutto ciò comporta in realtà un tracollo della democrazia. Che diventa plebiscitaria.
È come se ci trovassimo in un mondo che si avvia a ritornare all’idea di plebe, rispetto all’idea di popolo, e si riafferma qualcosa che non è mai sparito, ossia il fatto che il feticismo delle merci ci porta un processo di rimitologizzazione fondata sull’illusione che i desideri possano essere soddisfatti come se fossero dei bisogni. La confusione tra bisogni e desideri è un marchio della nostra epoca e del suo disagio. Dei miti a cui credere, ma senza crederci davvero. Delle mitologie. Come lo sono state le visioni totalitarie, come il nazismo. Non ne siamo mai usciti, e oggi, semmai, ci siamo dentro in modo forte. Siamo in un mondo che è da un lato disincantato e dall’altro più che incantato.
Sono molto d’accordo. Tra gli elementi che si rivelano con la pandemia e la guerra, a me sembra che si possa dire esistere un legame talmente evidente, chiaro, limpido e trasparente, che, però, difficilmente viene tematizzato e messo all’ordine del giorno: il legame tra la politica intesa come “politica di potenza” e l’economia intesa come “economia di rapina”. Anche secondo lei sta emergendo questa chiarezza nella situazione attuale?
Tutto ciò richiama molti aspetti, molto articolati, ma fondamentalmente è così. Intanto la politica di potenza non è sparita…se ragioniamo sulla base di un tempo storico, è molto breve la parentesi in cui sembrava che non ci fosse più… Questo significa che la globalizzazione non è funzionata secondo la cosiddetta “mano invisibile”, dove tutto accadrebbe in modo automatico. Non è stato così. Anzi, la globalizzazione ha riattivato forme di autodifesa locale e la nuova dislocazione della politica di potenza. La globalizzazione è stata una vittoria di classe del mondo capitalistico perché ha smantellato le modalità di produzione legate alla fabbrica, in cui si concentravano i lavoratori. La tecnologia ha permesso di smantellarle, perché oggi si può produrre e assemblare in diversi posti del mondo, dissolvendo così il vecchio modello dell’antagonismo sociale, anche se l’antagonismo e lo sfruttamento continuano ad esistere massicciamente. Tutto questo ha creato nei Paesi cosiddetti democratici una crescita della violenza sociale e dei “sovranisti”. Non dimentichiamolo: prima della guerra di Putin, l’Europa lo ammirava. Moltissimi lo facevano, e non solo in Italia. Davanti alla fine della tradizione di sinistra, come accade spesso nella storia, il senso di frustrazione e di insoddisfazione, si sposta a destra. I movimenti “sovranisti” sono anche in Europa. Non è solo Putin…
Lo stesso che sembra potersi dire della Cina, che ha un’influenza culturale importante ormai anche da noi…
Secondo me ciò è troppo sottovalutato in Occidente. Entro certi limiti penso che abbia ragione Giovanni Arrighi (1937-2009, economista e sociologo, ndr) quando – nel suo libro “Adam Smith a Pechino” – distingue la rivoluzione industriale nata in Inghilterra, e sviluppatasi in America e in Occidente, dalla rivoluzione industriosa, nata in Cina. Ovvero un tipo di crescita capitalistica, sviluppatasi in ritardo rispetto alla crescita dell’Ottocento e del Novecento in Occidente, che non si è basata tanto sullo sviluppo tecnologico ma sul mantenimento delle risorse umane, il “capitale umano”. Il che mette in discussione l’idea che esista un unico processo storico di crescita. Oggi mentre il capitalismo occidentale ruota intorno all’arricchimento piuttosto che sulla crescita effettiva, la Cina riesce a mobilitare in modo potente le sue risorse umane e a garantire il sistema capitalista grazie allo strapotere dello Stato. Tutto ciò le permette, tra l’altro, di progettare il futuro: lo Stato cinese ha il potere, per esempio, di rivoltare una regione grande tre volte l’Italia per trasformarla e sviluppare degli investimenti economici. Cosa che da noi può avvenire solo se lo fanno i privati, per garantire i loro interessi, rapinando o devastando. Non che i cinesi non devastino, sia ben chiaro. Il fatto è che ci troviamo di fronte a paradossale contraddizione tra stato e capitale, tra democrazia e futuro.
Quindi la forza cinese si basa sul fatto che sono capaci di mobilitare uno sfruttamento del lavoro ancora più feroce e di farlo su una scala enorme, verso grandi masse di popolazione.
Arrighi ci fa capire che non era tanto Smith con la sua idea della mano invisibile ad aver pensato che l’economia si potesse autoregolare al di fuori dello Stato, ma, semmai Marx ad aver pensato al sistema capitalistico quasi come una macchina automatica dove lo stato tende ad avere un ruolo secondario. Però Marx aveva visto qualcosa che ancora è valido: nell’economia capitalista quello che davvero conta è il rapporto di sfruttamento, come ha appena ricordato anche lei riferendosi alla Cina. Il rapporto capitale-lavoro, per capirci.
Tutto questo ci fa arrivare al cuore della nostra intervista: secondo lei esistono delle alternative all’economia dominante? Esistono o potrebbero esistere delle tendenze sociali-storiche che ci permettono di ripensare l’economia da una prospettiva ecologica?
In questo momento non sono ottimista. A me sembra che se guardiamo alle forze in campo, siamo in presenza di una situazione in cui viviamo più davanti alla dissoluzione di quello che è passato piuttosto dell’annuncio di qualcosa di nuovo che sta emergendo. Come diceva il mio vecchio maestro, lo storico Momigliano, “nella storia la misura dell’inatteso è infinita”. Non si può prevedere. Detto questo, ovviamente abbiamo dei punti di riferimento regolativi e visioni del mondo. Per me il punto di riferimento regolativo dovrebbe essere l’eguaglianza, che è anche a fondamento della questione ecologica. Vi è qui, nell’epoca dell’antropocene, un nesso importante tra natura e storia. Penso tuttavia che alcune cose possiamo farle in modo graduale. Prima facevo riferimento allo Stato sociale: riaprire una battaglia forte a favore di questo e contro lo Stato minimo e repressivo, il che significa che lo Stato non deve avere come finalità il profitto, non deve essere un’impresa che si mette in parallelo con le imprese private, ma quello che aveva visto Karl Polanyi (1886-1964, storico, antropologo, economista austriaco, ndr), anche se riadattato al nuovo millennio, ossia uno Stato che limita la “libera concorrenza”, ossia la “guerra di tutti contro tutti”, e interviene per socializzare. Oggi significa non solo banalmente riprendere la sanità e la scuola, che stanno andando in malora, ma anche assumere la questione ecologica. Perché lo Stato potrebbe farlo? Proprio perché non dovrebbe avere finalità di profitto. Dovrebbe essere il guardiano della questione ecologica. So che questo discorso è delicato, perché quando si parla dello Stato il modello dominante è quello americano. Come sai all’inizio della pandemia gli americani sono andati prima nelle farmacie e poi nelle armerie in nome della libertà del privato contro lo Stato. Ma sappiamo bene dove possa portarci un simile conflitto quando eccede sia il privato sia lo stato.
Il problema dello Stato è chiaro: questa istituzione moderna, anche se è cambiata nel tempo, ha comportato non solo un certo tipo di sviluppo economico, di cui stiamo parlando, ma anche un certo tipo di sviluppo umano. Anche il fatto che la democrazia sia stata costretta all’interno di questo tipo di organizzazione del potere collettivo, e il fatto che oggi sia in profonda crisi, credo che ci impone un ripensamento profondo dello Stato.
Ma certo! Intendiamoci, non vorrei che si creassero degli equivoci: non ho alcuna nostalgia del vecchio Stato.
Proprio in questa direzione si muove, per esempio, un importante pensatore ecologista, Murray Bookchin, che rimette in discussione lo Stato moderno sulla base di una premessa filosofica e storica: il dominio sulla natura deriva dal dominio dell’uomo sull’uomo. Da questo punto di vista sembrerebbe che anche il suo riferimento all’eguaglianza e al legame profondo che questa ha con la questione ecologica vada in una direzione analoga. A me sembra che Bookchin, soprattutto con il suo libro “L’ecologia della libertà” (Elèuthera, 2017), ci ponga un problema a livello del potere collettivo, e in particolare del potere dello Stato. È la natura del potere politico, pubblico, collettivo o statuale, che potrebbe impedire o facilitare una trasformazione in senso ecologista. Lei come la vede?
Userei un altro termine. Distinguerei tra potere e dominio. Il dominio sulla natura è difficile da disgiungere dal dominio dell’uomo sull’uomo. Vanno insieme all’interno di questo sistema capitalistico che funziona sulla base del fatto che lo sfruttamento della natura e degli uomini è finalizzato ad un profitto, ad un certo tipo di arricchimento, alla concentrazione e non alla distribuzione. Il punto fondamentale è questo: che tipo di Stato? Il problema dello Stato rispetto al capitalismo è che se lo Stato fosse organizzato in modo democratico potrebbe fronteggiare il dominio del profitto, cioè quello che crea contemporaneamente sfruttamento degli uomini e devastazione della natura. Il sistema capitalista non si innova ogni giorno, ma è fatto da forze planetarie che sfruttano sino all’osso quello che possono sfruttare e cambiano solo quando sono con l’acqua alla gola. Tanto è vero che i cambiamenti, sul piano dell’inquinamento, non si vedono. Fino a quando possono sfruttare fino all’osso lo fanno, e non cambiano. Ecco dove può intervenire uno Stato democratico. Fortemente democratico. Tutto ciò comporta una serie di questioni: che ruolo ha, e che fine ha fatto la politica? Penso che la trasformazione dei partiti avvenuta in Europa e negli Usa, partiti che non sono partiti, basati sul leader e su una condizione plebiscitaria, sono funzionali a questo tipo di sistema. Esprimono tre caratteristiche fondamentali, che già Joseph Alois Schumpeter (1883-1950, economista austriaco, ndr) aveva chiarito nel secolo scorso: scarsa partecipazione, apatia politica, ignoranza pubblica. Sono questi tre elementi a costituire oggi la nostra democrazia. Perché in una società di massa ciò favorisce la possibilità da parte delle élites di prendere le decisioni e costringe lo Stato ad essere al servizio del capitale (come si diceva in modo schematico un tempo). Quando Polanyi ne “La grande trasformazione” ci dimostrava che lo Stato è sempre intervenuto nell’economia, perché altrimenti saremmo arrivati al disastro sociale e alla guerra, questa era l’idea di fondo che stava esprimendo: il sistema capitalistico si basa sul principio dell’uso della società per dei fini privati. Quindi lo Stato viene usato per dei fini privati e per questo lo si vuole minimo ma con una polizia forte che se la prenda con gli esclusi, gli emarginati, i diversi. Lo Stato viene usato, diventa minimo e repressivo. Penso che occorra riaprire un discorso sullo Stato che non deve essere coercitivo. Una struttura istituzionale non coercitiva e fortemente partecipata.
Tanto Bookchin che i kurdi del Rojava oggi ci dicono che è lo stesso Stato moderno a dover essere ripensato…
Ma certo, sicuro.
In questo senso però si potrebbe anche cominciare a immaginare un’altra organizzazione istituzionale del potere collettivo che non sia lo Stato, anche prendendo per buona l’imprevedibilità della Storia a cui giustamente faceva riferimento.
Certo, non avrei alcun problema. Usiamo il temine Stato solo per intenderci. In questo senso è molto interessante guardare al futuro: che tipo di Stato o di organizzazione sociale vogliamo? Di questo non si parla, non è all’ordine del giorno però.
Esatto. Noi, nel nostro piccolo, la stiamo cominciando a porre e a trattare. Dal punto di vista filosofico c’è un altro autore che, sia per noi di Economiacircolare.com sia per lei, è molto importante e che conosce molto bene: Edgar Morin (Alfonso Maurizio Iacono ha partecipato al libro curato da Mauro Ceruti, “Cento Edgar Morin. 100 firme italiane per i 100 anni dell’umanista planetario”, Mimesis 2021). Morin usa alcuni concetti filosofico-politici rilevanti: “antropopolitica” e “Terra Patria”. Queste due idee mettono all’ordine del giorno il tema di come ripensare la politica, che abbiamo condiviso nel nostro recente lavoro comune (Emanuele Profumi e Alfonso Maurizio Iacono, “Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell’alterità”, Ets, 2019): secondo lei queste visioni della politica possono dare un contributo per ripensare non solo la politica ma anche l’alternativa di società che si può generare anche ripensando l’economia? Oppure pensa che queste idee critiche servano, ma non riescono in realtà a mobilitare una visione d’alternativa così profonda?
Mi sento dentro, parte attiva, di questa storia, e di quello che Morin rappresenta. Sono argomenti di grande importanza, perché Morin ha avuto il merito di farci riflettere soprattutto su una cosa: anche in politica, e non solo partendo dall’interno della politica, ci vuole una “rottura epistemologica”, un “ripensamento epistemologico”. Non è questione di reintegrarla nel sistema dominante. Da questo punto di vista le categorie a cui fa riferimento possono avere un senso. Non ritengo che siano le uniche. La politica si è trasformata ed è diventata amministrazione del potere. Organizzazione dello statu quo. Non c’è futuro. Ed è costruita in modo perverso tra questa amministrazione dello statu quo, mitologie e consenso. La democrazia non è consenso, ma difesa delle minoranze, e altro. Nella storia, se facciamo una classifica sui regimi che avevano più consenso, penso che Hitler sarebbe ai primi posti. Non è quindi il consenso a definire cosa sia democrazia. Il consenso non solo è molto labile, ma in politica immaginare che il consenso vada considerato così come si opera nel marketing per vendere la merce, è un grosso errore. Che commettono quasi tutti, però, fondamentalmente. Morin, quindi, in cosa ci aiuta? A pensare la politica come forma di conoscenza che integra la critica del potere, e sicuramente la critica del dominio, ma anche qualcosa di più. La politica è legata alla filosofia.
Con me sfonda una porta aperta…
È uno di quei saperi che hanno bisogno di altro. Si deve alimentare di saperi scientifici, filosofici, etici, sociali, culturali, antropologici. Non è una tecnica. E quindi bisognerebbe formare delle persone non tanto ad una tecnica o all’amministrazione del potere, ma a qualcosa di più. Mi sembra che le categorie di Morin siano valide, non ho obiezioni in merito. Non credo siano esaustive, ma hanno una loro importanza e un loro significato. Magari si aprisse una discussione sul “metodo”, per usare i termini di Morin.
A me sembra che con l’idea di “Terra Patria” dell’inizio degli anni ‘90, Morin abbia anticipato i problemi politici successivi.
Sicuramente. Aveva ragione già 20-30 anni fa. Il tema ecologico andrebbe visto anche sotto quest’ottica. E andrebbe posto un problema specifico nella relazione tra Terra, territorialità e virtuale. Quello che aveva capito Morin tempo fa, e che è ancora di attualità, è il fatto che per quanto il virtuale spinga la globalizzazione, e la connessione prima di tutto, noi siamo corpi, ancorati alla terra. È un errore pensare che la globalizzazione si muova solo sul virtuale. Pensare che non siamo corpi, che non siamo ancorati alla terra, è megalomania. La Terra, il pianeta. L’idea che la politica si sviluppi come una doppia pratica: possa essere qualcosa che simula l’osservatore dall’esterno per vedere il pianeta com’è, per poi entrarci, e includersi a livello pratico e teorico nel contesto di osservazione.
Perché la politica è una pratica riflessiva. E come tale è espressione della cultura democratica. Della pratica democratica.
La politica si porta dentro un rischio. L’emergenza. Ogni giorno c’è qualcosa che accade e che è urgente. Se presa alla lettera, diventa come una droga. L’emergenza fa perdere contemporaneamente il senso del futuro e quello del passato. Può essere quindi importante immaginare un rapporto tra politica e organizzazione tale per cui ognuno di noi possa essere in grado di affrontare le emergenze della quotidianità all’interno di un contesto dove la forma politica ti permette di pensare il futuro e di interpretare il passato. Seppure in modo discutibile, queste cose le facevano i partiti di un tempo. I partiti ideologici ci provavano. Poi sono scomparsi. È stato buttato il bambino con l’acqua sporca. Oggi i partiti non hanno territorialità, territorio. E qui ritorna Morin. Come puoi preoccuparti delle questioni ecologiche se non sei localmente dentro le questioni. Tutto diventa troppo generico e teorico. Bisogna tornare alla politica come territorialità e come forma di conoscenza. Legata alla cultura e al sapere, anche in modo più forte del passato.
Mi sembra che si possa affermare che, dalla sua prospettiva, per poter pensare ad un’alternativa all’economia dominante, dobbiamo necessariamente tornare sulla questione politica, dell’organizzazione sociale. Ma esistono, in senso stretto, delle misure economiche, come per esempio, l’economia circolare, che siano effettivamente delle alternative su cui puntare? Strumenti economici che ci aiutano a sottrarci dalla logica economica di rapina (sfruttamento, alienazione, etc)? Come per esempio la prospettiva di decrescita.
Sì. Devono esistere. Affinché possano esistere devono liberarsi dal portato della modernità economica: l’economia è una sfera autonoma che determina tutto il resto. Che non è il discorso di Marx, che invece pensa ai rapporti sociali, in primis. Molti economisti hanno sollevato questo problema negli ultimi anni: pensare un’economia compatibile con le esigenze ecologiche e con il lavoro non sfruttato. Il problema è che le ipotesi alternative o sono marginali o convivono con l’economia di rapina, che è loro antagonista. Penso ad un’organizzazione giuridico-sociale, tipo lo Stato, che possa andare in direzione opposta. Che possa quanto meno rallentare la tendenza dominante. Credo profondamente in questo. Penso che rispetto all’economia circolare e tutto quello che comporta, non se ne dovrebbe neanche discutere: oggi è fondamentale. Si fa anche troppo poco in questo senso, se la rapportiamo ai bisogni reali. Il vero problema, però, non è economico, anche se ha una ricaduta economica importante: la qualità della vita, o quello che io chiamo la “poesia della vita”; contro la “prosa del mondo”. La qualità della tua vita. Poiesis: fare, plasmare, creare. Ecco anche perché eviterei di associare l’economia circolare ad una visione puritana del mondo. Questo non lo fa il mio amico Serge Latouche, e non lo fa lei, però il rischio c’è. Perché è una visione molto forte nella nostra cultura: confondere la sobrietà con forme ascetiche e puritane. Io condivido con Serge il paradigma antiutilitarista. Perciò non sto teorizzando il trionfo dei consumi, ma neanche una visione ascetico-puritana, che è l’altra faccia del consumismo. Va sviluppato un buon rapporto tra etica ed estetica. Non il trionfo dell’estetica sull’etica come avviene oggi, e a cui ho già fatto riferimento. Sarebbe importante avere una qualità della vita che ci porti piacere. Qualcosa che non sia consumista, ma neanche l’ascetismo o il “talebanismo comportamentale”. Perché staremmo sempre nell’eccesso: o consumiamo troppo o non mangiamo. Dovremmo trovare un buon equilibrio nella qualità della vita. È un messaggio da dare.
Una gioia di vivere non consumista.
Esatto. Inoltre bisognerebbe uscire dalla psicologia della dipendenza, che non è soltanto dipendenza dall’eroina. Questa società, cosiddetta libera, è in realtà piena di dipendenze. Dalla seconda vita, dal computer. Viene anche teorizzata e praticata scientemente, con il metaverso. Dipendenze di vario tipo ci hanno fatto perdere autonomia. Kant diceva che l’illuminismo è la fuoriuscita dell’uomo dallo stato di minorità, che è l’incapacità di usare l’intelletto senza la guida di un altro. E questa capacità è l’autonomia. Penso che sia ancora un principio importantissimo che non è stato conquistato. I mass media, per via della logica di potere capitalista, spingono in modo molto forte sul conformismo. Diffondono conformismo. Che non è l’eguaglianza. Sono due cose completamente diverse. Oggi viviamo di emozioni, ma abbiamo dimenticato le passioni. Queste sono fatte di emozioni, ma sono molto di più. Comportano il governo e la cura di noi stessi proprio mentre estrinsechiamo da noi parte di noi stessi, cioè mentre facciamo, creiamo, cerchiamo di costruire appunto, mentre subiamo la prosa del mondo, la poesia della vita.