di Max Strata
Nel giugno 1940, un giovane emigrato in Francia torna nella sua città natale, La Spezia.
Ha solo vent’anni e lo fa assieme alla madre, per questioni di famiglia.
L’italia è da poco entrata in guerra e l’Europa è in balia degli eventi catastrofici che l’avrebbero insanguinata per sei lunghissimi anni.
Il giovane, fin da bambino distante dal paese che ha costretto il padre socialista ad andarsene, non ha dimestichezza con le sue regole e la sua ignominia.
Una domenica mattina scende per strada dall’appartamento del quartiere popolare dov’è ospitato dai parenti. Nella tasca dei pantaloni ha un giornale francese. Lungo la via principale, una parata militare si dirige verso l’arsenale. C’è euforia al passaggio dei soldati, come se questi andassero in vacanza e come se affiancare le truppe di Hitler fosse una passeggiata in un parco. Ma la propaganda ha fatto passare l’idea che il conflitto sarà breve e sicuramente vittorioso. Così, in molti fanno il saluto romano, cantano le canzoni dell’impero e inneggiano al duce.
Il giovane è incuriosito e si avvicina. Osserva e si limita a vedere se tra chi sfila c’è un suo conoscente, forse un vecchio amico di scuola. Passa un pò di tempo e ad un certo punto viene affiancato da due uomini in borghese. Lo hanno notato perchè non fa il saluto romano e perchè porta con sè quel giornale straniero, proibito nel Paese che si è dato alla rovina. I due si qualificano e gli dicono: “documenti”, ma lui non li ha con sè. Allora lo afferrano per le braccia, il giovane fa resistenza ma questi lo stringono forte e lo caricano su un auto. L’edificio che ospita gli uffici dell’OVRA, l’Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’Antifascismo, è buio e grigio, come deve essere. Gli sbirri lo fanno sedere, senza mettergli le manette. Per ora è solo uno che deve dimostrare chi è, che cosa fa in città e perchè ha con sè un giornale del nemico. Nel giro di un’ora, i documenti vengono recuperati, le sue generalità sono confermate e il giovane si aspetta di essere rilasciato, non avendo fatto niente di male. Invece lo trattengono e gli dicono di prepararsi per trascorrere la notte in cella. Bruno, questo è il suo nome, non sà cosa pensare. La madre e i parenti cercano di parlare con un ufficiale ma è tardi e l’ordine è perentorio: bisogna tornare la mattina seguente.
La notizia si diffonde nel quartiere e l’ansia per quello che gli può accadere inizia a farsi sentire. La mattina arriva ma quando la madre torna alla caserma Bruno non c’è più. L’ufficiale, che finalmente la riceve, le spiega che suo figlio risulta renitente alla leva e che per questo motivo sarà immediatamente arruolato: in giornata verrà imbarcato e lascerà l’Italia per una missione di guerra.
Bruno ha ora la sua divisa, il buffo berretto da regio marinaio e si guarda intorno frastornato, senza parole. Il cacciatorpediniere prende il largo e affronta giorni di navigazione prima di raggiungere il Mar Rosso, pronto ad ingaggiare battaglia contro la flotta britannica.
Scrive al padre e alla madre tornata in Francia, chiedendogli di salutare i fratelli e le sorelle. Gli dice che sta facendo l’abitudine a quella vita anche se ha nostalgia della sua famiglia, dei suoi amici, del lavoro in cantiere, del piccolo caffè situato di fronte al campo di bocce, del locale dove andava a ballare con una ragazza il sabato sera.
Bordeaux, le vigne e l’oceano Atlantico sono più che mai lontani.
La lettera passerà tra le mani degli addetti alla censura e solo dopo, mondata da ogni eventuale parola contro il regime, verrà inviata a destinazione.
E’ notte ormai, una notte apparentemente quieta nella rada del porto di Massaua in Eritrea, nel corno d’Africa dove sventola la bandiera italiana. Sulla branda fa caldo, un caldo equatoriale, madido e sfinente, così Bruno decide di salire sul ponte per fumare una sigaretta e guardare il cielo, sognando la libertà che ha perduto.
Sta fissando le luci del porto quando il primo siluro colpisce la nave.
Un’esplosione improvvisa, che squarcia lo scafo a prua, sulla dritta, innescando subito un incendio. Suona l’allarme, ciascuno è chiamato al proprio posto ma non c’è neppure il tempo di muoversi che una seconda esplosione fa breccia a poppa, dilaniando l’imbarcazione e aprendo una squarcio che imbarca subito moltissima acqua. Le sirene sembrano impazzite, il comandante richiama all’ordine, ma ogni rango è disfatto, ogni compito annullato. S’intuisce subito che la nave affonderà di lì a poco.
Intanto Bruno cerca di aiutare un ferito. Una grossa scheggia gli ha trapassato l’addome e il poveretto è a terra, sdraiato sulla schiena e sanguina come un animale al macello. Cerca di comprimere l’ampia ferita, gli dice di resistere, ma non c’è niente da fare: il marinaio gli muore tra le braccia. Passano altri minuti e avviene l’ineluttabile: il cacciatorpediniere sta per affondare. Non resta che tuffarsi in mare perché non c’è neppure il tempo di calare le scialuppe di salvataggio. Gli uomini sono ora in acqua, al buio, aggrappati a qualsiasi cosa galleggi, mentre le fiamme divorano quel che ancora è emerso della nave. Ancora qualche minuto e poi, come l’Ulisse della divina commedia, Bruno vede la poppa salire in su e la prua inabissarsi, fino a quando il mare inghiotte lo scafo e tutti quelli che sono rimasti a bordo. L’attacco non si è esaurito, nuove esplosioni colpiscono il porto e i sopravvissuti sono costretti a passare in acqua due ore prima che qualcuno vada a soccorrerli.
Alla fine lo issano su una pilotina e lo conducono sul molo. Ha solo ferite superficiali e sapendo nuotare è riuscito a tenersi a galla senza troppa difficoltà ma molti altri marinai sono rimasti intrappolati sulla nave e sono finiti annegati.
I giorni seguenti segnano una tregua e Bruno sogna che la guerra sia una cosa lontana, impalpabile, diafana, ma la tregua finisce e viene nuovamente imbarcato: questa volta su un incrociatore che avrebbe sfidato i nemici in mare aperto e vendicato le perdite.
Passano settimane ma la sfida non ha luogo. La nave solca il Mar Rosso, il golfo di Aden e il mar Arabico orientale ma dei britannici non c’è traccia, come se qualcuno o qualcosa li avesse fatti scomparire. Poi il comandante riceve l’ordine di dirigersi verso Gibuti e così fa.
Mentre la nave è in mare aperto avviene il contatto con il nemico. Stessa sorte, stesso dramma. Due siluri colpiscono in pieno l’incrociatore e Bruno si trova di nuovo in acqua. Questa la volta l’attesa dei soccorsi è più lunga e non pochi tra i naufraghi cedono a causa delle ferite o perché spossati dalla stanchezza.
Lui no, lui resta miracolosamente a galla, lui ce la fa.
Della regia marina non c’è più traccia, in soccorso dei naufraghi arriva una nave britannica che li conduce a Bombay.
I prigionieri vengono sistemati alla meglio e poi condotti in un campo temporaneo in attesa di essere trasferiti nel nord dell’ India.
Le grandi pianure del Punjab sfilano ora sotto i suoi occhi e il suo destino è in mano a militari di cui non comprende la lingua, nel cuore della più grande colonia di re Giorgio, affollata di gente umile e colorata che di lì a poco lo avrebbe chiamato Sahib.
Viene trasferito in vari luoghi, svolge i lavori che gli vengono ordinati ma lui e i suoi commilitoni vengono trattati con rispetto, gli viene fornito cibo e vestiario, fino a quando, un sergente maggiore che sta cercando un ragazzo sveglio che parli francese, lo chiama nel suo ufficio a tradurre dispacci e a spedire lettere.
E’ la sua occasione, Bruno impara presto l’inglese, riceve più cibo e sigarette.
Passano i mesi, lunghi e caldi, insidiati dalle zanzare e dalla malaria che lui prende due volte nella versione maligna chiamata terzana. Sta male, ha febbri alte e intermittenti e dimagrisce a vista d’occhio.
Il medico del campo gli prescrive il chinino e un ananas al giorno per dimuire i sintomi e affrontare la febbre. Alla fine supera la malattia ma è l’ombra di sè stesso e le gambe rinsecchite lo sostengono a malapena.
Il tempo passa e arriva l’8 settembre 1943. Ai militari italiani viene chiesto se intendono seguire i fascisti di Salò o passare dalla parte degli alleati. Solo qualche irriducibile e squallido burattino preferisce restare fedele al suo dittatore: la stragrande maggioranza è ben contenta di cogliere questa occasione. A Bruno, che ormai è diventato pratico dei suoi uffici, viene consegnata una nuova divisa, quella delle forze ausiliarie dell’esercito britannico, il grado di sergente e una moto Norton 500 con cui inizia a viaggiare sulle polverose strade del subcontinente.
Porta ordini e lettere nei vari campi di detenzione, nei luoghi di approvvigionamento, negli ospedali militari, accompagna i camion di vettovaglie, si avvale della fiducia dei sottufficiali britannici e si intrattiene a parlare con loro. Qualche indiano gli racconta di un uomo piccolo, magro e con gli occhiali che tutti chiamano “grande anima” e che ben presto riuscirà a liberare il loro Paese dai colonizzatori.
La prigionia si è ora trasformata in un’occasione per conoscere quella parte di mondo e Bruno guida nel deserto, tra le risaie, nei boschi di pipal e fino alle pendici dell’Himalaya.
Si sposta tra Jaipur, Lahore, Shimla e Lucknow.
Poi arriva la fine della guerra in Europa e solo dopo qualche mese quella in oriente.
La grande carneficina costata oltre 60 milioni di morti, immenso dolore e inenarrabili distruzioni, lascia sul pianeta una immonda traccia di morte.
Bruno deve attendere l’inizio del 1946 per tornare in Italia e raggiungere parte della sua famiglia che si è trasferita a Viareggio.
Sono passati cinque anni e otto mesi da quando ha lasciato il Paese.
Con una divisa color kaki, calzoni corti e un cappello australiano a falde larghe, si presenta sulla passeggiata a mare tra gli occhi incuriositi delle ragazze. Una di queste lo attrae più delle altre: si chiama Elda e diventerà sua moglie.
Quel giovane marinaio, prigioniero, motociclista e porta dispacci, era Bruno Strata, mio padre. Un padre che di tanto in tanto ricordava la sua vicenda personale passando da una risata ad una lacrima, dalla descrizione di un episodio sagace a quella di un volto di amico finito chissà dove. Un padre con cui ho avuto l’orgoglio di marciare contro la guerra – contro tutte le guerre- e che mi ha sempre messo in guardia dalla follia che abita la mente di chi disprezza la dignità dell’essere umano, di chi crede che la violenza e la sopraffazione possano rigenerare un popolo.
La sua storia è anche la mia storia, quella che sento addosso e che nessuno può togliermi, la radice dove è cresciuto il mio albero.
Come è stato scritto “la storia dà torto e dà ragione… dà i brividi e nessuno la può fermare” e se è vero che la storia siamo noi, genitori e figli, io non la voglio dimenticare.